Lo spazio bianco della meditazione


Oggi le ricerche di Cross sono arrivate a un punto di svolta. Dopo aver esplorato per anni le forme dell’arte contemporanea legate al movimento e alla performance, e dopo aver cercato nei loro lavori l’essenza e il motore che le animava, la riflessione che portiamo avanti ora è più legata alla spiritualità e in particolare a indagare come la scintilla creativa degli artisti vada spesso a braccetto con la ricerca interiore di questi, che  nei casi più interessanti diventa ricerca di un vero e proprio collegamento con l’oltre. Creare diventa pregare e gli artisti in questi frangenti manifestano un’aspirazione a farsi ponte, collegamento fra cielo e terra come insegna lo Yoga, attraverso l’arte. Ma prima come sempre c’è la ricerca, che spesso, quando si parla di spiritualità, funziona per sottrazione, attraverso un togliere, invece che un aggiungere, come del resto insegnano tante meditazioni, dove si fa’ un lavoro di vero e proprio spogliamento per raggiungere l’essenza. Perché “essenza”, nell’arte come nella spiritualità, è la nostra parola chiave.

Trovare l’essenza. Nell’arte che impara dalla meditazione. Togliere gli strati alla cipolla, per usare una metafora magari un po’ banale, per vedere cosa resta.

Ci sono stati tanti momenti  nella storia del linguaggio che hanno rappresentato questo movimento del togliere, del sottrarre, per trovare l’anima. In questo caso abbiamo scelto uno snodo particolarmente significativo: un’opera dell’espressionismo astratto  di Barnett Newman esposta al Centre Pompidou di Parigi. Perché è dallo spazio bianco della meditazione che Cross vuole partire. Dalla ricerca di un centro, di un punto fermo interno da cui si dirama il linguaggio. La danza che parte dall’immobilità, la parola che parte dal silenzio: dal grado zero di tutte le espressioni, dalla disgregazione totale a cui ci hanno portato le avanguardie. E provare ad abitare quel vuoto.

Per questo, per introdurre il nuovo cammino del nostro blog , abbiamo scelto una tela particolarmente rappresentativa di Barnett Newman, uno dei quindici lavori appartenenti alla serie The stations of the Cross, importante perché collocata in un preciso percorso evolutivo del linguaggio. La serie è ispirata alle ultime parole di Cristo sulla croce e come farà poi Mark Rothko nella Rothko Chapel la cristianità e la passione si esprimono in modo indiretto. A volte una linea è più potente di un’intera rappresentazione figurativa.

Così la tela bianca di Barnett Newman, appena solcata da una linea di espressione, come tutti i suoi lavori minimalisti, per noi non è soltanto un’opera ma un luogo. Un punto di partenza. Una potenzialità.
Quel punto che si diceva, in cui il ricercatore deve imparare a stare, osservando tutte le strade senza apparentemente imboccarne nessuna. Ed è qui che arte e spiritualità si toccano. Perché è quello anche il luogo in cui sorge la danza. Il punto fermo al centro del movimento. La sua fonte.  Del resto va’ detto che una delle funzioni dell’arte (e in questo le arti figurative hanno sempre influenzato i tempi con grande anticipo) è quella di indicare la strada. Questi artisti minimalisti degli anni Settanta, portando la figurazione al grado zero, hanno forse inconsapevolmente indicato all’umanità come non fosse più il tempo di esprimersi soltanto, ma fosse arrivato il tempo di imparare a lavorare sull’essere. Sulla qualità del proprio essere.

,
Quindi, se dovessimo trovare parole chiave  per i nostri progetti futuri: Il vuoto. Il centro. La danza. Il bianco. L’interiorità. L’abisso. E infine , con grazia, e coraggio, danzare sull’abisso.

ALTRI ARTICOLI DAL BLOG