A dire il vero forse si dovrebbe riflettere sul fatto che è soltanto il corpo del danzatore/performer, con la sua presenza fisica, a fare da punto di contatto. Perché per tutto il resto i modi dell’espressione variano e si allontanano, sia nelle ispirazioni iniziali sia nei risultati finali con differenze enormi e ben radicate che non stanno tanto in superficie bensì alla base.
La contrapposizione fra performing art e danza contemporanea infatti avviene fondamentalmente sul piano della ricerca, e nelle direzioni che essa prende: ovvero verticale in un caso e orizzontale nell’altro. Nella performance la ricerca è il fulcro ed è consustanziale all’avvenimento stesso costituendone sia l’origine sia la destinazione. Tutto questo ben al di là della forma finale restituita al pubblico.
La ricerca è inscindibilmente legata all’esperienza del performer, tanto che questa diventa quasi sempre il terreno favorevole per una scoperta, la quale avendo la funzione di “ rompere”, che sia uno standard, una forma o un codice, porta con sé la magia delle epifanie. Insomma la ricerca nella performance crea linguaggi e fa nascere significati. Ma la sua essenza non sta né nei significati, né tantomeno nella forma dei significati , quanto nel fatto che questi nascano.
La performing art stupisce, sia il pubblica sia chi la compie, perché rompe. Fa nascere cose, ovvero è per sua stessa natura primigenia, evocativa: aspira ad essere sempre un’origine e a rimettere in discussione tutto. Si ricomincia da capo ogni volta, si reinventa tutto, non ci si mette mai d’accordo sulle regole e non si riescono a mettere paletti fissi. Ed è proprio questo, detto forse un po’ semplicisticamente, il bello.
E allora, quando la performing art diventa così intensa da andare alla radice, diventa spirituale. Del resto la ricerca teatrale , proprio come quella spirituale, deve essere per forza radicale, altrimenti non sarebbe tale.
E grazie alla ricerca come motore, la performing art disgrega. Dal di dentro. Rovista. Per sua stessa natura aspira ogni volta a mettere in discussione tutto, compreso il proprio linguaggio, sempre, meravigliosamente, fragile, sfibrato , traballante.
In una certa danza moderna invece, che poggia su basi più solide e che magari gioca con alcuni elementi del classico ma senza stravolgerlo, portando innovazioni estetiche anche di altissimo livello, la ricerca però si ferma, diciamo così, a uno stadio precedente. Non scava. Si muove in un senso orizzontale, lontano da quella discesa negli inferi della creazione che è della performance. All’artista che si esibisce nel balletto non è chiesto di mettersi in gioco. Entra ed esce intatto dall’esibizione, perché non toccato nella propria interiorità.
E il pubblico si gode lo spettacolo senza essere chiamato a interpretarlo, o comunque in misura molto minore. Per questo motivo nella danza contemporanea la ricerca, che comunque esiste ed è parte integrante, si può definire di tipo orizzontale e si sviluppa sul piano aneddotico della coreografia, della scenografia, del costume e così via, oltre che naturalmente del gesto. Ma c’è un codice. E ci sono le variazioni attorno ad esso. C’è sempre un metro insomma sul quale confrontare le interpretazioni. Non si ridiscute tutto ogni volta. Si scrive e riscrive su un canovaccio, come hanno fatto i grandi maestri nella storia della pittura antica, si procede per gradi e per piccole impercettibili conquiste.
Non è però in questa sede il momento di fare l’apologia di una o dell’altra forma. Vorremmo invece semplicemente invitare il nostro pubblico a riflettere su certe categorie estetiche, per comprendere meglio, con occhi più chiari, gli spettacoli di domani e le sperimentazioni che verranno.
Un viaggio nell’aura di pratiche e figure chiave della spiritualità e dell’arte performativa tra corpo, gesto e visione.
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